Un giorno all’improvviso, era il 26 febbraio scorso, il Castellani di Empoli ha cantato felice, con migliaia di voci, “Il cuore mi batteva, non chiedermi perché”. Una settimana prima, al Mapei Stadium di Reggio Emilia, ‘O surdato si era nuovamente ‘nnammurato di lei, che sul prato verde gli si mostrava in tutta la sua bellezza.
Eppure per Sassuolo-Napoli ed Empoli-Napoli, così come per Salernitana-Napoli del 21 gennaio e Spezia-Napoli del 5 febbraio, il settore ospiti era chiuso e la vendita dei biglietti vietata ai residenti a Napoli e provincia. Decisione presa l’11 gennaio dal Ministero dell’Interno: sessanta giorni di stop dopo la guerriglia in autostrada di domenica 8 gennaio tra gli ultrà napoletani, che andavano a Genova per la partita con la Samp, e i “colleghi” romanisti, diretti a Milano per la sfida con i rossoneri.
I violenti all’opera nell’area di servizio Badia Al Pino, in provincia di Arezzo, hanno reso un grande torto a chi voleva seguire pacificamente la squadra anche lontano da casa ma hanno involontariamente fatto affiorare un fenomeno dalle dimensioni forse un po’ dimenticate: il gran numero di tifosi del Napoli che non vivono in Campania e sono pronti a occupare gli stadi del centro-nord per inseguire un sogno che da 33 anni, stagione 1989-1990, non era così vicino alla realtà.
Decine di cori, centinaia di bambini, migliaia di sciarpe: dietro alla felicità un flusso costante di persone a difesa delle quali Massimo Troisi si è fatto argine solitario in “Ricomincio da tre”, consegnando alla storia del cinema italiano il suo “Napoletano sì, emigrante no. Io voglio viaggiare, voglio conoscere”.
I dati ci accompagnano con le spiegazioni di Michele Colucci, Primo ricercatore del “CNR – Istituto di studi sul Mediterraneo”, con sede proprio a Napoli, e curatore con Stefano Gallo del “Rapporto annuale sulle migrazioni interne”. “La Campania – precisa Colucci – è in assoluto la regione meridionale maggiormente segnata dall’emigrazione verso il centro-nord. Nel decennio compreso tra il 2002 e il 2012 sono state circa 500mila le persone che l’hanno lasciata per andare verso Roma e oltre”.
Numeri importanti, che non accennano a diminuire. Anzi. Nel 2015 risiedeva fuori dalla Campania circa un milione e 200mila persone che vi sono (o vi erano) nate. A fine 2017, 2018, 2019 sono segnalate 30-35mila partenze dalla regione. Il dato più recente: nel 2021, secondo l’Istat, sono stati in 17mila a trasferirsi al centro-nord dalla sola provincia di Napoli. Nulla di paragonabile nel resto del centro-sud. E si tratta di stime approssimate per difetto, perché ad essere registrati sono solo coloro che cambiano residenza per trasferirsi altrove ma non tutti, al momento della migrazione, lo fanno.
“Il peso e l’importanza della provenienza napoletana e campana nelle regioni del centro-nord – spiega Colucci – non deriva solo dai movimenti degli ultimi anni ma da una lunga storia, che ha generato reti e comunità che di generazione in generazione conservano relazioni, affetti e rapporti con la regione di origine. Questo ha ricadute importanti da molti punti di vista, a livello economico ma anche, naturalmente, sul piano della tifoseria calcistica”.
Questa è la fotografia dell’Italia contemporanea, in cui l’emigrazione è un dato strutturale che si ripropone in tutti i contesti, anche nell’ambito dello sport e del tifo. Dove, molto spesso, chi ha lasciato Napoli tifa ancora per il Napoli e contagia figli e nipoti con la sua passione (“fede”, la chiamano gli innamorati del pallone). E qui numeri e analisi scarseggiano, anche se il fenomeno inizia a essere studiato.
Il “contagio” è fallito in casa Criscitelli. Maurizio, 51 anni, è il presidente del “Napoli club Bologna”, città in cui vive dal 2000. Segue la squadra ovunque fin dal 1984, anche nelle amichevoli estive. Ma al figlio Lorenzo, 17 anni a maggio, il calcio non piace: “L’ho portato allo stadio per la prima volta quando aveva quindici mesi. Mi sono arreso dopo una partita di Champions. Era con me in curva, si è messo a leggere un libro che aveva nello zaino. Gli altri ragazzi con il panino e la sciarpa, lui col libro. Ora mi fa fesso e mi dice ‘Papà, forza Napoli!’. Ma io sono contento, almeno non soffre come è toccato a me per tutta la vita”.
Criscitelli era allo stadio a La Spezia (“eravamo millecinquecento”), a Reggio Emilia (“abbiamo polverizzato undicimila biglietti in meno di due ore”) e a Empoli (c’erano almeno tremila tifosi napoletani tra curva e tribune”). Dalle sue parole emergono due mondi paralleli e distanti: “Nella maggior parte dei casi da Napoli e provincia si muovono i gruppi organizzati del movimento ultrà, che hanno una composizione facilmente riconoscibile: sono quasi tutti uomini, hanno la stessa età, si vestono seguendo determinati codici. Invece in queste tre trasferte c’era qualche club ma soprattutto mamme, papà e figli, tantissimi bambini. Le famiglie che vivono al nord e non si possono permettere i costi di una partita al Maradona. E infatti prima di questo momento magico l’ex San Paolo faceva il tutto esaurito durante i ponti e vicino alle festività, quando gli emigranti tornavano a casa”.
In quei due mondi paralleli cambia anche la colonna sonora: a La Spezia e a Reggio Emilia i tifosi del Napoli hanno intonato ‘O surdato ‘nnammurato che invece al Maradona ormai non si sente più perché non ha il marchio “made in ultras” e le curve non vogliono che si canti. “E invece per me è quello il nostro inno – dice Criscitelli – perché lo cantiamo dal 7 dicembre 1975, il giorno in cui il Napoli di Vinicio vinse in casa della Lazio e scavalcò al primo posto in classifica la Juventus, sconfitta nel derby. I gruppi organizzati pensano: ‘noi siamo questi. Voi siete gli altri’. Ma Napoli è la città dell’integrazione, dell’accoglienza. Noi li facciamo convivere con l’orgoglio della nostra identità, che manteniamo anche quando la vita ci porta lontano”.
Negli anni quell’orgoglio ha trovato in Maradona il suo simbolo senza tempo, un polo d’attrazione più forte di altre squadre del sud, abbandonate da una parte dei loro tifosi emigrati al nord. “Ma col Napoli di Spalletti questo fenomeno si è accentuato”, dice Giovanni De Luna, che ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Torino, è nato a Battipaglia, in provincia di Salerno, ed è un grande tifoso juventino, tanto da aver scritto con Aldo Agosti, nel 2019, “Juventus. Storia di una passione italiana”. “Il Napoli di Maradona – spiega De Luna – aveva una dimensione molto localistica, più ristretta alla città di Napoli, che era totalmente ubriaca di passione. La squadra del 2023 gioca talmente bene, è talmente forte e bella da vedere che ha fatto riscoprire le radici meridionali in chi ha lasciato la sua città negli anni 50 e 60. È un Napoli nazionale, con cui è facile identificarsi, anche per il cammino che sta facendo in Champions”.
Prova quasi inconfutabile: “Sono in una chat juventina, composta da tifosi illustri e molto radicali nella loro passione bianconera, e vedo che anche loro subiscono il fascino di questo gioco strabiliante che la squadra di Spalletti propone”. Il professor De Luna non nasconde la sua ammirazione, “ma io sono uno juventino per certi versi anomalo: vengo da una famiglia di tifosi napoletani e Salernitana e Napoli sono le mie seconde squadre, perché tengo molto alle mie radici e mi arrabbio quando sento “Vesuvio lavali col fuoco” e altri stupidi cori di questo tenore. Mi ricordo quando allo Stadium si giocava Juventus-Salernitana e ho visto lo striscione ‘Bellizzi è qui’. Io sono nato a un chilometro da Bellizzi e non potevo non commuovermi, anche perché con la vecchiaia si diventa molto più sentimentali”.
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